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Intervista a Carlo Bartoli
COME E’ NATA LA PASSIONE PER IL DESIGN E PER L’ARCHITETTURA? È una domanda alla quale è difficile trovare una risposta. A me è sempre piaciuto disegnare da ragazzino. Durante gli studi al liceo, avevo delle grosse capacità su certi temi e scarsa passione per altri temi e una delle capacità che avevo era quella di disegnare molto bene a livello geometrico, ma soprattutto mi piaceva quello che adesso si chiama rendering.
Avevo una grossa capacità di sviluppo e di comprensione della geometria, in tutte le sue forme, geometria a livello tecnico… – da bambino volevo fare l’ingegnere, ma poi ho capito che gli studi che mi potevano esser utili erano quelli di architettura; cosa avrei fatto dopo non lo sapevo – come molti ragazzi ora – anche perché non prevedevo il futuro e non immaginavo quale sarebbe stato lo scenario del mondo italiano da quando io stavo studiando in avanti. La scelta iniziale non è stata casuale: diciamo che con il tempo – parlando di design – è maturata in un momento nel quale la mia attività professionale era già iniziata. Io mi sono laureato in architettura, ho cominciato a fare l’architetto, ho cominciato a costruire. Tuttavia non avevo i canali giusti per affrontare i temi di architettura che mi interessavano. Poi le cose si sono evolute per conto loro: infatti non sempre riesci a pilotarle come tu vorresti.
In un momento di crisi per la mia attività come architetto ho tentato una strada alternativa volgendo la mia attenzione agli oggetti di arredo. Le sedute mi hanno sempre interessato e già allora le consideravo un elemento fondamentale ed emblematico del nostro modo di abitare. In quel periodo mi è venuto in mente di creare una seduta in vetroresina. La vetroresina era allora una tecnologia all’avanguardia e cominciava a essere utilizzata a livello artigianale per le imbarcazioni,per qualche arredo e anche in architettura, Volevo fare una forma con un’immagine nuova e provocante; per questo ho cominciato a lavorare su una poltrona pensando di utilizzare questo materiale , che mi affascinava per le straordinarie possibilità formali che offriva: Nello stesso tempo ho cominciato a mettere a fuoco un criterio di elaborazione del progetto nuovo, che consentisse un continuo controllo della forma durante il suo sviluppo. Coerentemente con questo criterio, per il progetto della poltrona in vetroresina (che ebbe poi il nome Gaia) ho lavorato direttamente su un modello di gesso.
Gaia ha segnato una svolta nella mia attività. .E’ nata, come ho detto, in un momento di scarsa fortuna professionale come architetto e mi ha offerto insperate possibilità come designer.
Due sono le circostanze che hanno segnato questo inizio : una è stata l’invenzione di questa poltrona, che è stata fatta quasi per disperazione, ( non sapevo cosa fare, non avevo committenti validi o faticavo a raggiungerli… e comunque ero troppo impaziente per fare dei concorsi o per intraprendere , come sarebbe stato opportuno, un tirocinio professionale presso uno studio di architettura qualificato) , la seconda è stato il rapporto, nato proprio attraverso Gaia , con l’azienda di punta, di cultura, di allora, che era ARFLEX .Le due cose mi hanno poi anche aperta la strada per l’insegnamento.
A proposito ARFLEX, io già anni prima avevo fatto una libreria per loro.Il rapporto con questa azienda era nato così: l’ amministratore delegato Alberto Burzio aveva mandato una lettera a tutti i giovani laureati in architettura di Milano e Lombardia, dicendo loro che, se avevano qualche idea da proporre, di farlo. Io ho colto al volo l’occasione: avevo appena fatto per casa mia una libreria che era stata prodotta artigianalmente, ma anticipava concetti innovativi .
Era andata così: facendo seguito alla lettera inviata da Alberto Burzio gli avevo telefonato e l’indomani lui, venuto a casa mia, ha visto la libreria e ha immediatamente concluso ”va bene, la facciamo in serie” e l’ ha messa in produzione .
Era di fatto un primo esperimento di cash and carry un criterio con cui qualcuno più tardi avrebbe provato a realizzare prodotti d’arredamento pensati per essere distribuiti in modo più sbrigativo rispetto alla trafila tradizionale: i prodotti potevano essere acquistati, caricati in macchina e portati a casa,
(Un modo di proporre arredi che IKEA ha poi sviluppato molto bene)
Io avevo fatto un cash and carry a modo mio. Mi serviva in casa una libreria, perché avevo tutti i libri accumulati su una tavola in compensato appoggiata sopra dei campioni di marmo che la staccavano da terra: ad un certo punto mia moglie mi dsse “basta! o fai una libreria o queste cose le facciamo sparire!”. Allora a tavola, mentre cenavo, ho schizzato una libreria formata da tavole e pannelli da montare come un castello di carte ,per incastri e gravità, dicendo “la facciamo fare al Rama (un nostro amico artigiano ) che sta sul lago di Garda e poi ce la portiamo a casa”.
Ho fatto il disegno – eseguito a tecnigrafo (il computer ancora non esisteva )– l’ abbiamo spedito, poi siamo andati da lui a ritirare la libreria, facilmente realizzata . L’abbiamo caricata in macchina (era costituita solo da pannelli facilmente trasportabili) e portatala a casa l’abbiamo rapidamente montata.
Poco più avanti (nell’anno 1963) sarebbe stata messa in produzione da Arflex col nome di B 146.
Dopo qualche anno, quando ho pensato di fare questa poltrona, (GAIA) in vetroresina , l’ho proposta ad Arflex: Burzio ha detto solamente “si, ok, falla!”
Nello studio non avevo un locale adatto al tipo di lavoro che intendevo fare: ho cominciato perciò a lavorare in casa in un localino-guardaroba, che era l’ unico dove potevo fare un modello al vero… la progettazione l’ho sviluppata con alcuni schizzi preliminari e con modelli al vero sui quali potevo facilmente aggiungere e togliere.
Il primo modello l’ho realizzato in gesso, chiedendo l’aiuto dell’amico scultore Giancarlo Marchese,. che mi ha dato tutte le informazioni necessarie. Su una struttura di centine e ordinate in compensato ho messo una rete metallica leggera per dare forma iniziale alle superfici, poi tela di juta , e sopra di essa il gesso allo stato semiliquido, che poi si rapprendeva ed era facile da modellare seguendo la forma… ed è nata così la prima versione di questa poltrona, che a me, in quel momento, sembrava bellissima. Mi piace raccontare tutto questo, perché la mia giovinezza, la mia attività iniziale di designer sono legata a queste cose.
A questo punto ho chiesto a Burzio ,poiché era pronta questa prima versione di progetto, di mandarla a prendere e portarla in Tecniform per mostrarla ai dirigenti di Arflex .
Tecniform , un’azienda collaterale di Arflex, era un grosso magazzino con un pianale di carico – come si usava una volta – che arrivava a livello dei cassoni dei camion… morale: la poltrona è stata portata in Tecniform, messa su un grande tavolo, coperta da un lenzuolo; erano stati convocati i soci importanti di Arflex, che erano 5/6 persone. A un certo punto ho tolto il lenzuolo e scoperto la poltrona (come si fa per l’inaugurazione di un monumento…), cominciando a illustrare il progetto… e si è diffusa una sensazione di gelo terribile: perché era brutta e in quel momento me ne sono accorto anch’io.
Allora ho cercato di rimediare dicendo che stavamo sperimentato un modo diverso di fare l’oggetto, che lo stavamo modificando e che poi lo avremmo fatto vedere modificato.
Burzio ha continuato a darmi fiducia. E io avevo capito cosa dovevo fare.
Mi sono messo a lavorare nuovamente su questo modello .nel localino in casa, con il gesso, togliendo le parti in eccesso e aggiungendo dove serviva , ci lavoravo tutte le sere. Al mattino arrivava la domestica che si ritrovava sul pavimento una montagna di trucioli di gesso tolti dal modello e diceva “anca mo?” (“ancora?”), perchè tutte le mattine doveva far pulizia. Io poi di giorno andavo giù in studio al piano terra e lei puliva, poi io tornavo la sera e riominciavo a lavorare… finchè alla fine Burzio la vide e disse che era giusto averla modificata .Il modello era ora della forma che poi è stata realizzata in vetroresina .Perché era stato fatto abbastanza bene per poter essere data in mano ad uno stampista , che lo curò ancor meglio (anche se non molto di più). Fece lo stampo in vetroresina ricavandolo da questo modello. . Le prime poltrone GAIA venivano stampate manualmente, sempre in vetroresina entro questo stampo( un altro mondo rispetto a come si lavora adesso).La superficie dei pezzi stampati era poi lucidata come la carrozzeria di un’automobile.
Il risultato era molto soddisfacete. La presentazione delle Gaia avvenne questa volta non con un modello di gesso ma con una decina di pezzi stampati in vetroresina, di colori diversi, collocati in fila al sole di una mattinata di primavera del 1967, all’aperto sul pianale di carico di Tecniform: Gli stessi soci importanti di Arflex della prima presentazione. nuovamente convocati, rimasero ammirati e senza parole.
Gaia fu per Arflex e per me un buon successo di comunicazione .Di fatto tutte le riviste che si occupavano di design negli anni ’60: (non molte) pubblicarono immagini di Gaia.
Ora torno indietro per spiegarvi il perchè della scelta di fare il designer.
Da ragazzo avevo la passione per l’aeromodellismo, come si faceva allora. Non esistevano i modelli già pronti da montare,: bisognava farsi tutto, progettare, tagliare, sagomare, incollare… io facevo “modelli a elastico,” che funzionavano con una matassa di elastici all’interno della fusoliera, ( veniva avvoltolata con un trapano per mettere poi in rotazione un’ elica che girava e trascinava in volo l’aereo). Per la rotazione dell’elica era utilizzato un cuscinetto a sfere particolare, il cosidetto cuscinetto reggi-spinta che non esisteva in commercio. I cuscinetti erano tecnicamente fattibili con mezzi artigianali e me li facevo da solo.
Gli aeromodelli necessitavano di progetti esecutivi: facendoli ho imparato la geometria descrittiva e proiettiva con molto anticipo rispetto all’apprendimento in liceo e poi al politecnico.
Tutto questo tipo di lavoro – quando ho cominciato a fare queste cose avevo 12/13 anni – ha comportato un auto apprendimento straordinario ..Ho scelto poi di fare l’architetto, anche se poi in realtà quello che sapevo fare era il design, piu’ che l’architettura .Ma allora non c’erano scuole di design. Per fare architettura avrei dovuto fare con un po’ di pazienza un tirocinio presso qualche architetto “giusto” – e ce n’erano – e ho sbagliato a non farlo. Quindi ho finito per fare il designer, perché avevo questi precedenti, perché di fronte a certi problemi sapevo come risolverli. Per me il fatto di realizzare il modello in gesso di GAIA non era una difficoltà, dovevo solo capire dove mettere le mani e lo sapevo fare.
PASSAGGIO DA STUDENTE AD INSEGNANTE
All’inizio facevo prima l’architetto e poi il designer. Poi ho ho continuato a fare l’architetto e il designer guadagnandomi da vivere con quest’ultima attività. La passione era per entrambe le attività ma le occasioni professionali erano molto maggiori per il design.
In realtà quelli che si dedicavano e sapevano fare il design erano in pochi allora: c’era tutto un mondo da conquistare.
Diciamo che mi sono trovato nel momento giusto, con le cognizioni giuste, nel mercato giusto a fare questo lavoro, e lo faccio tuttora,
Il passaggio all’insegnamento è avvenuto sopratutto grazie a Gaia , che aveva conquistato la vetrina di Arflex. In quel periodo tutte le persone culturalmente interessate al design andavano a vedere cosa l’azienda metteva in vetrina. Con Arflex lavoravano designer – architetti della prima generazione come Cini Boeri, Zanuso e altri come Pierluigi Spadolini , il quale ,vista Gaia ,mi invitò ad insegnare a Firenze.
Allora andavo a Firenze tutte le settimane in macchina, percorrendo l’autostrada del Sole, che allora era percorribile a 200 km/h perché non esistevano ancora limiti di velocità; e le macchine erano poche.Partivo alle 8.00 del mattino da Milano e alle 10.00 ero a insegnare a Firenze… avevo una Alfa Romeo con un buon motore., e io mi divertivo a correre, specialmente sugli Appennini.
Lì ho fatto l’insegnante per tre anni, ho rinunciato con dispiacere, perchè l’insegnamento è una cosa bella ,ma per farlo bene bisogna dedicare molto tempo.Io volevo dedicarmi sopratutto al design.
Poi dopo qualche anno mi sono lasciato tentare nuovamente e sono tornato ad insegnare all’ ISIA di Roma, ma anche li finì dopo un anno; la professione chiamava.
Già allora avevo chiare le idee riguardanti la progettazione, che non può essere fatta solo coi “disegnini”: ci deve essere un processo di evoluzione del prodotto che avviene attraverso degli appunti, degli schizzi, poi attraverso un modello in scala e da quello poi si arrivava alla forma se possibile in dimensione reale.
Il modello in gesso di Gaia è stato il primo riferimento dal quale sono partito per l,insegnamento.
Da li è nato il concetto del lavoro attraverso schizzi inizialmente molto piccoli,poi con un modello, prima uno piccolo (ne avevo uno di Gaia da mostrare) poi uno in dimensioni reali. Da li ho capito che prima di fare i disegni esecutivi, bisognava concentrarsi sui concetti di uso dell’oggetto progettato, poi sugli schizzi e sul tipo di forma da realizzare.
In sintesi: la forma non va vista solo con gli schizzi, perchè con gli schizzi non vedi abbastanza, ma bisogna provare a farla, bisogna essere capaci di farla. Il modello può anche essere fatto fare dal modellista, (ci sono designer che seguono questa strada); ma facendo direttamente il modello ci si accorge di cosa non va e si può cambiare.
Un altro concetto sul quale insistevo era la necessità di osservare :“copiare” nel modo giusto ciò che hanno fatto gli altri, così da capire cosa si deve fare. Copiare significa riallacciarsi alla tradizione e andare nella giusta direzione; quindi bisogna verificare cosa si sta facendo fino a svilupparlo nel disegno in grande; da quel disegno si passa al modello al vero e poi si fanno le modifiche necessarie.
Un riferimento che facevo sovente è il rapporto del designer con le necessità reali del mondo nel quale viviamo, con le possibilità nuove offerte dalla tecnologia , con l’azienda e la sua maturità culturale in termini di linguaggio delle forme e in termini di evoluzione tecnica.
Un esempio che sovente facevo è quello di Zanuso. La storia del design italiano è legata anche a quello che Zanuso ha fatto nel settore del mobile imbottito. Lui per primo ha colto al volo delle possibilità tecniche nuove per rivoluzionare il mondo dell’imbottito, cominciando a lavorare con i nastri elastici e con la gommapiuma stampata ad iniezione.
Non uno ma quali e quanti designer e dove,e quando.
Ritengo che i migliori del periodo 1960-1985 possano essere individuati nell’ambito del design italiano, del design del nord Europa e quello ruotante attorno agli Eames negli U.S.A.
l design italiano negli anni ’60 si è affacciato prepotentemente alla ribalta con la Vespa(invenzione epocale),con i Castiglioni (“Arco” del ’62) , con Albini (“Luisa”, poltroncina famosa che è stata d’insegnamento per tutti i designer italiani ),con la “Superleggera” di Ponti e poi la caffettiera “Moka Express” di Bialetti e con molti altri oggetti e designer.
Il design italiano si può delineare parlando degli anni tra il 1960 e il 1985; . La fase ’60-’85 è quella della necessità di invenzione, perché non c’era niente (dei prodotti in serie) da utilizzare, da inserire nell’arredamento , bisognava inventare tutto. il grosso dell’evoluzione del design è avvenuto in questi anni. In Italia si stavano attuando programmi di edilizia popolare a buon livello; molte persone avevano bisogno di mobili che costassero abbastanza poco da inserire in questa case: servivano dei mobili di serie a prezzo accessibile.
Nel design del nord Europa emerge in particolare la figura straordinaria di Alvar Alto.
Alvar Aalto ha dato una svolta, ha dato un’ interpretazione all’uso del legno che solo uno bravo come lui poteva dare: ha inventato un modo per fare le gambe di quei tavoli, tagliando tutto a listelli, piegando, reincollando… era molto bravo.
Certamente però il fenomeno piu’ emozionante è quello degli Eames, che in una terra dove non c’era tradizione hanno inventato il design. Così partendo da un approccio – che è quello che a me piace anche in Aalto – attraverso i materiali e ai suggerimenti che i materiali danno, loro hanno inventato l’uso della vetroresina sulle poltrone, sulle scocche, hanno inventato l’uso del compensato nei mobili, nelle sedie, inventando della macchine per stampare il compensato fatte in casa (come potrei averle io giu’ in cantina). Charles Eames aveva questo genio della progettazione della forma e della tecnologia; la moglie era una grafica bravissima; le congiunture degli astri li ha fatti incontrare e sono uscite cose straordinarie.
Il libro famoso sugli Eames (Eames Design edito da Thames and Hudson )racconta la loro storia. C’è anche un bel filmato edito da Feltrinelli, sugli Eames, che racconta anche dei rapporti tra moglie e marito… Ray , la moglie, molto brava, era soprattutto una grafica, Charles aveva in mente la chiave della tecnologia e ha promosso tecnologie interessanti e rivoluzionarie.
Da loro sono uscite cose straordinarie: loro certamente sono i piu’ bravi.Charles Eames è quello che ha maggiormente influenzato il mondo del design contemporaneo.
L’ATTENZIONE PER LE COSE SEMPLICI . IL DESIGN DELL’INVENZIONE E DELLA NECESSITA’
La nostra attenzione per il design di quegli anni dovrebbe puntare anche sulle cose semplici, sugli oggetti di uso comune che sono stati ridisegnati o inventati.
UN’ESPERIENZA PERSONALE..Uno dei complementi d’arredo che non si trovavano in produzione con un disegno corretto erano i reggimensola: allora si usavano in sala da pranzo tavoli fatti in serie o dall’artigiano accompagnati da mensole a muro; per le mensole si usavano dei reggimensole in ottone pressofuso, con forme rococò e barocche.
Ho affrontato questo tema con la ditta Confalonieri.
Questa azienda produceva dei terribili reggimensole di ottone fuso e stampati artigianalmente per colata.Un nuovo disegno di questo accessorio non era stato affrontato prima da altri .L’azienda aveva una nuova macchina per la produzione in serie di accessori in zama pressofusa. Ho affrontato con loro il tema di nuovi reggimensola di disegno corretto, da produrre in pressofusione. Non esistevano alternative sul mercato. Avevano un prezzo onesto. una forma molto semplice e accattivante:
Li hanno prodotti per anni. Questo era il design dell’ invenzione e della necessità.…
Questo tipo di oggetti è stato affrontato sistematicamente in quegli anni ; essi fanno parte del panorama immenso offerto dal design italiano dal 60 agli ultimi anni del secolo scorso ; la necessità era lo stimolo che ne ha determinato la validità.
COSA PENSA DEL DESIGN
Già nel 98 mi avevano chiesto di rispondere alla domanda “cosa pensa del design?”
La mia risposta era questa “vedo il design italiano come un grande circo, nel quale si muove tutto e il contrario di tutto: designer vecchi e giovani ,italiani e stranieri , che tentano giochi di equilibrio” “critici che leggono il futuro e faticano a vedere il presente… riviste come clown che invadono la pista creando un po’ di confusione; aziende che corrono in tondo e magari riescondo a cogliere l’attenzione del mondo con produzioni da 10 pezzi all’anno… tutto si muove come una grande rappresentazione; il bello è che che qualcuno riesce anche a divertire e a divertirsi.”
Questa risposta vale ancora: le aziende che si salvano sono poche.
E’uno dei motivi per confermare che il design che preferisco è quello prodotto tra il ’60 e l’85 e comunque prima del 98.
PERCHE’ MILANO RIMANE ANCORA UNA CITTA’ COSI’ RINOMATA PER IL DESIGN?
Credo che sia la coda di anni straordinari. Ci sono altre realtà, che certamente non potranno avere la stessa parabola che ha avuto a Milano, ma che stanno venendo avanti: il design non c’è solo a Milano , ma anche in Italia e nel resto d’Europa,in America, Sudamerica,in Giappone e in Cina.. C’è ancora una forte cultura del design a Milano perchè molti giovani dedicano ancora del tempo e passione a questo tema “sempre appassionante” che è il design. Anche se è difficile trovare la sostanza che c’era allora,i giovani fanno cultura fanno cultura cercando di capire cosa devono fare. Noi cosa facciamo? Cerchiamo di disegnare per aziende con le quali abbiamo mantenuto i rapporti; alcune aziende sono scomparse o stanno scomparendo; per fortuna altre resistono o stanno emergendo.
LA “SCUOLA DI MILANO”. Negli anni ’60 quando molti architetti milanesi si dedicavano all’edilizia abitativa, facendo anche delle belle case, che sono passate alla storia; c’era necessità di mobili, magari anche prodotti in serie. In quel periodo si era formato di conseguenza un robusto gruppo di progettisti – che io chiamo ” scuola di milano “– costituita anche da architetti del calibro di: Zanuso, Albini, Gardella, Caccia Dominioni e parecchi altri…
che facevano arredamenti per la borghesia. Sovente questi arredamenti diventavano una sorta di laboratorio per sperimentare prototipi di mobili che alcuni artigiani lungimiranti cominciavano a mettere in serie, rendendoli disponibili a prezzi contenuti. Questi architetti hanno creato un filone di cultura del design che aveva la sua radice a Milano, nella Brianza e in parte nel Veneto, qualcosa in Piemonte e in Emilia. Poi sono arrivati anche designer da altre parti d’Italia , ma dopo…